IL MESTIERE DI URBANISTA - Roland Castro
Architetto e urbanista
URBANISME un Métier
interviste di Angelo Ferrari sul mestiere di urbanista (Parigi 2004)
A.F._ Come può lo spazio di prossimità guadagnare senso di fronte all’attrazione dei veicoli di trasmissione?
R.C._ Penso che più il villaggio è planetario, più la comunicazione è sviluppata, e più la questione dell’insediarsi qui o là, diventa seria. Il radicamento dei cittadini è in crisi perché non c’è più un legame tra città costruita e politica. In Francia, per esempio, durante la terza repubblica (1870-1940) c’è stata una politica urbana d’affermazione repubblicana il cui obbiettivo era la stabilità. In questo periodo tutti gli edifici pubblici, i servizi come le abitazioni, erano magnificati in quanto identificativi della repubblica. C’era del gratuito, della parmodia, del dono, nel modo di posare gli edifici pubblici nella città. E’ l’epoca dei grandi viali attrezzati costruiti tutto intorno a Parigi, nei quali l’abitare dei cittadini è ben rappresentato, c’è una riconoscibilità della dignità di ciascuno. Oggi la repubblica è stabile dunque non si prende più cura dei suoi luoghi. Infatti adesso quando guardo, per esempio, i risultati delle elezioni mi accorgo che più i quartieri sono brutti meno si vota, è molto chiaro, là dove il movimento moderno ha colpito con più violenza, i grandi quartieri intensivi eccetera, c’è una perdita di senso civico enorme, una perdita di cittadinanza e dunque di civiltà. Dunque penso che la questione dell’abbellimento delle città sia un argomento politico urgente. Il problema è che i tempi della politica sono oggi ridotti all’istante, all’evento, manca completamente, nella maggior parte delle municipalità, un pensiero di lunga durata, una continuità nel progetto urbano. Questo è un enorme ostacolo al miglioramento della città.
A.F._ Nei vostri progetti di “rimodellaggio” urbano voi lavorate molto sul concetto di scala urbana. Ristabilire le scale intermedie tra l’uomo e la città aiuterà davvero la nascita di nuovi spazi politici?
R.C._ Se la città è ben disegnata il senso di civico è sicuramente favorito. Parigi per esempio è una città con una buona urbanizzazione, che permette lo scambio ed il sentimento di appartenenza è abbastanza forte. In nessun quartiere il Fronte Nazionale ha mai superato il dieci per cento. Anche i quartieri a forte concentrazione straniera, a Parigi non sono dei ghetti, ma concrezioni urbane produttive che formano un sistema integrato all’interno della città. Gli stessi ingredienti etnici in un grande insieme moderno dell’interland sono catastrofici. Il topos può generare logos. Io lavoro sul rapporto tra legame e luogo per avere il sentimento dell’uno e del comune. Il problema è che nelle politiche contemporanee mancano grandi progetti generosi per la cittadinanza. Anche i grandi progetti europei sono solo per le infrastrutture, non sono progetti di prossimità né di radicamento.
A.F._ Cosa ne pensa dei casi, come le città storiche italiane o la campagna Toscana, nei quali la diffusione dell’immagine attira compratori e visitatori che non hanno alcun rapporto col territorio?
R.C._ La merce “buona città” è rara e dunque costa cara. Si può dire che in quei casi lo spazio politico è stato rubato dal mercato. L’idea patrimoniale permette il furto dello spazio pubblico, ma il problema non è tanto la Toscana. Il vero problema è l’abbellimento delle città, se no il mercato, naturalmente, continuerà a sottrarre territorio ai cittadini, fino a quando non ci sarà più nulla da comprare e più alcun cittadino in toscana.
A.F._ Voi siete anche insegnante alla scuola d’architettura di Paris La Villette. Cosa ne pensate dei nuovi strumenti informatici?
R.C._ Ai miei studenti, come nel mio studio, proibisco che si incominci un progetto al computer. C’è effettivamente un pericolo per la tenerezza e sensualità delle cose, per la forma. La logica della trasparenza, che genera costruzioni astratte come, per esempio, la grande biblioteca nazionale di Dominique Perrault, è certamente indotta dalle tecniche di rappresentazione. Le riviste di architettura sono piene di oggetti e non c’è più alcun lavoro sui luoghi. E’ una regressione terribile ed è colpa degli architetti che amano l’oggetto senza pensare ai vincoli dell’intorno. Nei concorsi di ristrutturazione urbana ci sono in media venti architetti candidati, mentre se si tratta di una nuova costruzione se ne presentano centocinquanta. Perciò è chiaro che sempre più architetti in Francia preferiscono dedicarsi a progettare begli oggetti-contenitori. Bisognerebbe rilanciare il ruolo sociale dell’architetto.
A.F._ Come trovate il rapporto con le amministrazioni?
R.C._ Io pratico il circuito corto col sindaco perché più attori ci sono meno si comunica, in più gli intermediari amministrativi fanno spesso ostruzione.
In Francia ci sono sempre più concorsi di definizione che sono sistemi di messa in concorrenza nei quali il problema è aperto, c’è molto più dialogo, la domanda è cosa fare e non solo come.
A.F._ Cosa ne pensate della partecipazione degli abitanti alla costruzione della città?
R.C._ Trovo molto positivo che gli abitanti partecipino fin dall’inizio al progetto. E’ molto meglio per l’appropriazione dei luoghi che verranno costruiti e possono dire cose molto intelligenti ed utili. Io ascolto, mi faccio aiutare, ma penso che la posizione aristocratica dell’architetto deve essere mantenuta, alla fine sono io che devo prendere una posizione. In ogni caso insisto sull’aspetto didattico, perché i cittadini sono implicati ma non sono formati né sufficientemente informati riguardo ai temi dell’urbanistica.
A.F._ Pensate che le periferie italiane avrebbero bisogno di importanti lavori di trasformazione?
R.C._ In certi posti si, ma è meno violento di quello che succede in Francia. Da voi c’è una drammatica disparità tra il centro città e le periferie nelle quali c’è poco spazio pubblico organizzato ma, quanto meno, c’è un sentimento pubblico nel modo in cui sono abitati.
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