ANTROPOLI

 


 

Le città e l’urbanizzazione degli ultimi 200 anni sono la forma più rappresentativa dell’Antropocene, il vero volto di un’umanità dominata dal denaro, dai beni di consumo e dall’individualismo. Le immagini delle città ci parlano di noi: grattacieli e baracche raccontano delle crescenti disuguaglianze sociali, le zone monofunzionali (industriali, residenziali, turistiche, direzionali, …) provocano l’aumentare dei confini e delle situazioni di margine dove un magma di reti infrastrutturali (strade, parcheggi, ferrovie, elettrodotti, …) ci dice quanto è grande il territorio abitato. Alla concentrazione di capitali segue la concentrazione di attività e di abitanti dando forma a conurbazioni gigantesche, di decine di migliaia di Km quadrati e decine di milioni di abitanti. A questi addensamenti corrispondono immense aree desertificate e vasti territori sfruttati dagli investimenti finanziari o industriali.

Le costruzioni dell’uomo hanno sempre rappresentato la forza e la ricchezza di un popolo, ma da un paio di secoli servono soprattutto come  riserva di valore, per assorbire l’eccedenza di capitale nella speculazione fondiaria ed approfittare della rendita finanziaria, spesso reinvestita nelle costruzioni, in un circolo vizioso che periodicamente crolla. Sono soprattutto le banche che hanno bisogno di costruire per trasformare enormi quantità di denaro, generato dagli interessi sui prestiti, in beni reali. Per questo oggi crescono città dal nulla in tutte le economie emergenti, esattamente come accadde per New York e Parigi nel XIX secolo.

Questa situazione ha determinato fenomeni caratteristici nel tempo e nello spazio.

L’accelerazione è l’effetto temporale più pervasivo. L’informazione, gli spostamenti, la produzione, il consumo, tutte le durate si riducono mentre aumentano le quantità, in un’incessante corsa verso eventi che dovrebbero sostituire la mancanza di significato e di valori, la cura e le relazioni umane, ma che funzionano solo come distrazione di massa continua, creazione di un presente permanente nel quale non occorre pensare. Il sociologo Hartmut Rosa ci mette in guardia da questo fenomeno che accelerando i fenomeni tecnologici, sociali ed esperienziali aumenta lo stess, il burnout e la depressione alienandoci dalla società, dall’ambiente e da noi stessi.

La discontinuità è l’effetto più evidente sullo spazio. Anche in quest’ambito aumenta la quantità di territorio che abitiamo e di cui facciamo esperienza ma si deteriora il legame cosciente con il contesto perché frammentato in una miriade di forme urbane isolate  ed indifferenti. Abitiamo il tempo delle trasmissioni, il controllo degli spostamenti, la memoria dei programmi, in continuo movimento tra isole funzionali che ospitano luoghi e momenti separati, successivi, decostruiti e discretizzati. Questa tendenza all’indifferenza spaziale, che privilegia il lontano rispetto al vicino, degrada non solo l’ambiente naturale ma anche la convivenza civile perché identifica nelle frizioni di prossimità un limite all’emancipazione dal contesto, al nomadismo statico culturale di cui parlava Paul Virilio. Il vero assente è lo spazio pubblico di confronto e dialogo, l’indispensabile legante tra particelle di civiltà che si ignorano.

Se gli abitanti sono depressi e il vicinato è conflittuale vogliamo davvero continuare a vivere nelle città costruite dalle banche? Possiamo ancora sperare di trasformare i nostri insediamenti da prodotti a opere? Possiamo riuscire a costruire città come sculture sociali?


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