ABITARE LOCALE

 

Il rifugio, il nido, la tana, sono considerati una necessità primaria di moltissimi animali, sia nomadi che stanziali. Fin dalle prime comunità umane i ripari venivano separati in più parti per definire, se non un dominio, degli ambiti di competenza dove una famiglia o una coppia potevano trovare persone, oggetti e atmosfere più intimi.

Abitare deriva dal verbo avere che richiama il possesso e il controllo.

Significa avere un ambiente noto, che si conosce bene, di cui si ha l’abitudine e nel quale ci si sente al sicuro, tra amici, a casa. Nel tempo il verbo abitare è stato usato anche nel senso di avere un habitus, cioè un particolare modo di essere. L’abitazione viene così identificata come il luogo dove si possono creare, conservare e intensificare particolari modi di essere, dove si coltiva un’identità.

L’abitare è strettamente legato al controllo di uno spazio.

Chiamiamo abitazione uno spazio che possiamo sottrarre alle intemperie, alla luce, ai pericoli esterni. Abitare richiede quindi la capacità di regolare gli scambi tra l’interno e l’esterno della dimora. Nelle società sedentarie e nei primi insediamenti stanziali assistiamo all’allargamento della superficie abitata ed all’aumento dei tipi e dei gradi di controllo. Le città fortificate come le campagne ed i territori feudali, sotto la protezione dei re e dei signori locali, rappresentano risorse controllate dagli abitanti. Con l’aumentare della velocità dei mezzi di trasmissione, dal cavallo al treno, dal telefono a internet, la superficie sotto controllo continua ad espandersi. I grandi imperi, le colonie e l’omologazione culturale globale sono stati supportati dall’avanzamento della tecnica, così come la familiarità che oggi abbiamo con situazioni, immagini e culture anche molto remote. Oggi possiamo controllare il globo intero attraverso i nuovi potenti mezzi di trasmissione fisica ed informatica. Abitiamo individualmente un ambiente sotto controllo che ha come unico limite la biosfera. Così il nostro pianeta è diventato un oggetto, un bersaglio, un super-utensile a cui non sembriamo più appartenere. Non abitiamo più una superficie circoscritta dalla quale dipendiamo per le risorse, ma piuttosto un ambiente generico ed indefinito per il solo fatto di poterne controllare l’arrivo. La vera dimora è oggi un centro di controllo dove sono condensati i mezzi di trasmissione, un nodo della rete, un punto senza estensione, indifferente alla superficie su cui insiste ed alle sue risorse, un polo d’inerzia.

L’abitare globale, mentre ci illude di possedere l’intero pianeta come serbatoio di risorse e possibilità, ci obbliga a competere con realtà fisiche, economiche e culturali molto diverse dalle nostre, alimentando il conflitto etnico, razziale e religioso.

Solo se riusciremo a riattivare una risonanza con l’ambiente prossimo potremo trovare il modo di conciliare l’abitare locale alla partecipazione globale. Dobbiamo assolutamente imparare a controllare ed armonizzare le diverse scale esperienziali che siamo portati a frequentare e l’unico modo, a mio avviso, è quello di governare l’istantaneità tramite la gradualità delle scale intermedie. Così possiamo incentivare l’uso di risorse e prodotti locali approfittando di tecniche e conoscenze globali, far evolvere i sistemi decisionali locali all’interno di confederazioni ed alleanze universali, favorire la pluralità d’espressione e d’informazione organizzandole in reti tematiche orientate geograficamente. Ci sono tanti progetti in corso, in moltissimi campi, che vanno in questo senso e scoprirli è importante per continuare ad essere ottimisti.

Commenti

  1. Molto interessante: riattivare una risonanza con l’ambiente prossimo!!!

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  2. il concetto di "risonanza" è preso dal sociologo Hartmut Rosa (accellerazione ed alienazione, Einaudi 2015)

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