GRASSI SEGREGATI
Per analizzare la forma urbana della mia città, durante la preparazione della tesi di laurea in urbanistica, inventai un sistema di lettura che divideva le forme secondo il loro grado di controllo. Le forme sotto alto controllo sono chiuse, compatte, con limiti chiari e omogenei, poco permeabili ed al limite esclusive. Quelle con un controllo molto basso, o di tipo diffuso, sono aperte, indeterminate, eterogenee e permeabili. Di solito le forme sotto alto controllo individuano una proprietà privata, mentre quelle poco controllate sono spazi pubblici o altri beni comuni. Arrivai alla conclusione che il grado di controllo delle forme urbane stava rapidamente crescendo, mentre gli spazi aperti a diversi tipi di espressione stavano scomparendo.
Erano gli anni ’90 e si parlava soprattutto di città diffusa, città telematica o città multietnica, ma non si faceva molto caso al fatto che la privatizzazione e la gestione privata dei beni comuni stava privando i cittadini degli spazi di espressione e discussione, come diritto acquisito e come luoghi fisici d’incontro. Stavano aumentando i confini ed i limiti opachi all’interno delle nostre città, le attività di quartiere sparivano a vantaggio dei centri commerciali, le costruzioni si allontanavano dalle strade pubbliche per chiudersi dentro quartieri privati, l’automobile dilatava gli spazi pubblici con grandi spianate di parcheggi in asfalto, riducendo i marciapiedi e la vegetazione a superfici marginali. In breve tempo siamo passati dal quartiere popolare progettato nel dopoguerra, con un giardino pubblico, una piazza per il mercato, una chiesa ed una casa del popolo, una scuola ed un ambulatorio, alle periferie indistinte, con più o meno facilità di parcheggio, più o meno accessibili dall’autostrada o dalla tangenziale.
Avevo dato un nome alle diverse forme urbane, secondo il loro grado di controllo, si andava dalla segregazione (zone militari, centrali elettriche, carceri, …) ai grassi urbani (spazi dismessi, campi, terrains vagues, …). Avevo constatato che verso il centro urbano le costruzioni sotto alto controllo aumentavano e con esse il senso di insicurezza nello spazio pubblico. Nei paesi ed ai margini della periferia, al contrario, si trovavano più forme aperte ed indefinite, luoghi di cui prendersi cura, condivisi dalla comunità, usati e utili e quindi anche sicuri per tutti. Per questo mi ricordavano i grassi, le riserve di energia all’interno degli organismi, perché erano riserve naturali dove esercitare il diritto di abitare, condensazioni di comunità libere di manifestarsi, sostanze energetiche da condividere secondo logiche di solidarietà. La sintesi della mia lettura della città, per la tesi di laurea, era una fetta di mortadella, compatta ma con nuclei di grasso.
Oggi mi occupo principalmente di progettare spazi pubblici e forse, quando scelgo il posto per una panchina o un albero, penso di interpretare i desideri condivisi da una comunità, ma in realtà sono un estraneo, non so cosa vogliono e spesso non lo sanno neanche loro. Molte volte non sono neanche in presenza di una comunità, ma solo di nuclei famigliari omogenei che si sfiorano e di un funzionario pubblico preoccupato solo per i costi e la manutenzione. Allora credo che l’obiettivo principale sia restituire agli abitanti il diritto di gestire i loro spazi pubblici come un bene comune, luoghi di incontro e discussione dove si acquista consapevolezza delle reali necessità delle persone, zone dove le forme, i colori, i manufatti sono espressione di scelte individuali e collettive. Se lo spazio pubblico fosse liberato dalle automobili e se i luoghi di lavoro ritornassero vicino alle abitazioni potremmo dire di abitare un quartiere, un borgo, una frazione o un paese che contribuiamo ad abbellire, che amiamo e che sentiamo veramente nostri.
Le zone centrali delle nostre città, dove la rendita immobiliare e la pressione finanziaria sono più alte, hanno spazi pubblici sotto alto controllo, con telecamere, antifurti, ronde di guardie giurate. Le strade e le piazze del centro però hanno un ruolo pubblico ancora più grande, essendo gli spazi pubblici di quartiere per gli abitanti del centro e, contemporaneamente, gli spazi di pubblicazione e rappresentazione per tutti gli abitanti delle periferie. Per questo occorre garantire a questi spazi il massimo di equità, di apertura, di libertà interpretativa, non si può permettere che le forze mercantili se ne impadroniscano escludendo intere categorie di popolazione. E’ quello che sta purtroppo accadendo in molte città, dove il turismo, la gentrificazione o la desertificazione finanziaria stanno privando gli abitanti dei loro spazi pubblici centrali. A Firenze o Venezia è difficile trovare un posto dove sedersi senza dover consumare almeno un caffè, alcune piazze o strade vengono periodicamente chiuse per spettacoli a pagamento o eventi privati, le strade sono costantemente affollate e sorvegliate da poliziotti e telecamere. Le aree centrali di Londra o New York sono, di giorno, dominio esclusivo di finanzieri e banchieri e di notte, deserte.
Quando scegliamo una casa dove abitare consideriamo anche i servizi di prossimità, il vicinato, la qualità dell’ambiente naturale e costruito, il paesaggio. Nei quartieri di nuova costruzione tutto è progettato nei minimi particolari e realizzato con prodotti tutti uguali, in serie, secondo indagini di mercato e statistiche. Se preferiamo una casa isolata con giardino finiremo probabilmente in un quartiere-dormitorio dove tutti escono di casa in automobile, gelosi della propria privacy. Se invece scegliamo di abitare nelle città del passato, dai centri medievali alle periferie del dopoguerra, ci sentiremo compressi in piccoli appartamenti, senza vista né autorimessa, su strade trafficate e rumorose, con pochi commerci e servizi pubblici. In poche parole abitare oggi significa scegliere una posizione dalla quale partire e tornare. Ma abitare è sempre stato un elemento costitutivo dell’identità delle persone, un elemento di affezione e radicamento, inteso come nutrimento e sostegno. Senza beni e spazi comuni, responsabilità, diritto di espressione, allora l’ambiente che abitiamo di più è quello del controllo, chiusi all’interno delle nostre case o in automobile, dove siamo liberi di gestire le connessioni e gli spostamenti, gli arrivi e le partenze, le persone e il voto.
Dobbiamo recuperare la sensibilità alla scala umana, alla prossimità, alla partecipazione, se vogliamo vivere completamente, assecondando le nostre inclinazioni e condividendo le emozioni con gli altri, riconquistando il diritto alla responsabilità e prevenendo ogni tipo di abuso.
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